Non esiste una tradizione di dolci “ricchi” nel nostro territorio, almeno nell’accezione che collega e rende plausibile l’aggettivo con la presenza di creme, bagne, glasse e farce. I dolci presenti in provincia sono pochi ed essenziali nella loro composizione, a renderli “ricchi”, per usare lo stesso termine in modo aderente alla realtà storica, sono le materie prime del territorio, la talvolta lunga preparazione, l’essere strettamente legati a ricorrenze o eventi, il testimoniare l’inventiva che supplisce alla scarsità degli ingredienti. Mi piace l’idea di prendere la spongada – senza dimenticare bossolà, persicata, biscotti bresciani, brodo di giuggiole e scalitù – a esemplificazione di tutto ciò … Iniziamo dal nome, rigorosamente scritto con la lettera d e non con la t a menzognera italianizzazione: la spongata, dolce registrato dalla Banca Dati dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali – presente nel sito del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali – è altra cosa, torta riccamente ripiena appartenente alla cultura della regione Emilia Romagna, accanto a una versione toscana, mentre della nostra spongada non v’è traccia.

E ancora traccia non troviamo in ricettari bresciani attenti e completi come quello di Marino Marini, o in veri riferimenti per la cucina regionale come il testo di Anna Gosetti della Salda. Dobbiamo cercare tra le pagine della Cucina Camuna di Ducoli Giacomo detto Fio per leggerne quantomeno i componenti, perché le dosi non rientrano nei fini di questo scritto: farina, zucchero, burro, uova, lievito di birra, un pizzico di sale, un poco di vaniglia sapientemente uniti in tempi e impasti diversi, lunghe lievitazioni, la giusta cottura a regalarci questo dolce che “nel secolo scorso … si usava offrire ai poveri e agli ammalati in segno di salute e di augurio, e ciò durante il periodo pasquale“. Sempre Ducoli ci ricorda l’uso di accompagnare la spongada a del salame oltre che a chiusura del pranzo di festa.
Ora, detto del nome e degli ingredienti, diciamo di cosa dovrebbe essere la spongada e in cosa, alcuni produttori, cercano di trasformarla. Innanzitutto ribadiamo la sua composizione che non contempla, e perché dovrebbe, aggiunte come le “gocce di cioccolato”, i “frutti di bosco” e uno stravolgimento tra i rapporti dei componenti tradizionali che la trasformano in una sorta di “brioche” in teoria più “appetibile?!” a moderni palati … Chi conosce le interpretazioni fedeli di questo dolce non può che innamorarsi del profumo di burro con sottili ricordi di lievito, che sprigiona per lunghissimi tempi, della consistenza un poco “gnucca” della pasta, del colore dorato che assume dopo cottura e, nel contempo, trovare stucchevoli quelle forme gonfie e lievitate a dismisura che accanto ad elementi estranei si fanno riconoscere da un imperante sentore di vanillina. Se voglio una moderna pasta lievitata, magari in versione “light” che si scioglie quasi istantaneamente a contatto con la saliva, ho millanta alternative senza scomodare questo dolce camuno. Confesso che su un altro aspetto sono, per mia golosità, più tollerante: la stagionalità che vorrebbe la spongada relegata, se non ai soli giorni di Pasqua e Pasquetta, quantomeno all’inizio della primavera … Sono tuttavia perfettamente conscio che il collegare alcune preparazioni a momenti particolari dell’anno ne accresce il valore simbolico, ne valorizza i componenti, magari “colti” nel periodo di massimo sapore o di giusta presenza, sarebbe insomma auspicabile tornare a un maggiore rispetto delle stagioni e del loro divenire.

A Breno, dove la spongada ha una sua De.Co. (denominazione comunale, invenzione del grande Veronelli) ogni anno se ne celebra una Féra che vede protagoniste in una sfida massaie brenesi con le loro personali, ma rispettose della tradizione, versioni. Ricordo che alcuni paesi della valle differenziano la loro spongade con minime variazioni, cito solamente l’uso dello zucchero sotto forma di granella, semolato o a velo. Nel corso dell’ultima edizione sono apparse, fuori concorso, spongade con il cioccolato: su questo ripeto la mia intransigenza , chiamatele come volete ma non abusate del nome storico.
I cambiamenti di una ricetta, le contaminazioni, sono un processo presente in modo continuo e pressoché ubiquitario ma hanno un senso se frutto di trasformazioni metabolizzate all’interno di una cultura della tradizione, di mutate esigenze alimentari e non se nascono dalla pura ricerca del profitto o da necessità di “marketing” che nulla hanno a che vedere con il rispetto del territorio e dei suoi valori.
Un grazie alla forneria Sainini di Esine per aver permesso l’esecuzione delle foto che accompagnano questo post che, salvo minimi ritocchi, è già apparso nel blog TerraUomoCielo di Giovanni Arcari
Che sia una fetta di bossolà, una spongada, una fettina di polenta fritta con lo zucchero, o un biscotto bresciano, penso che se fossero serviti con la rosolada al caffè cioè tuorlo e caffè liquido sbattuto con lo zucchero farebbero una bella figura in qualsiasi ristorante
Bella idea Claudio e grazie per il commento, pensi che nella Cucina Camuna di Giacomo Ducoli (Fio) sotto la voce Rüsumada appare una ricetta che si perde negli anni a base di acqua, zucchero e tuorlo d’uovo sbattuto …. E seguendo la sua proposta possiamo pensare ad alcuni dolci bresciani serviti con il “Brodo di giuggiole” o con la “Mosa”, crema profumata al limone …
@ Carlos
ma dal nome ta set mia de bresa, com ela?
sul web trovi anche le ricette della rosolada, la nonna di mio papà la faceva con il caffè ma ho trovato solo quelle con il vino, un’alternativa estiva è servire i dolci prima nominati con la persicata molle cioè la purea di pesca de cobiat cotta con zucchero succo di limone e buccia di limone
Hai ragione Claudio, capisco la tua perplessità … sono un italo (bresciano) – argentino – irlandese … Da parte materna, Brescia Brescia, il nonno era di Montichiari e la nonna di Leno … Sempre da lì ho ereditato l’amore per la cucina, il cibo, le tradizioni …