Nel 2004 Einaudi pubblicava un volume di Marco Aime, docente di Antropologia culturale presso l’Università di Genova, dal titolo utilizzato per questo post. Conteneva, contiene, molti spunti interessanti sul concetto di cultura o, più precisamente, sul presunto incontro dello stesso che afferma “A incontrarsi o a scontrarsi non sono culture ma persone […] Ogni identità è fatta di memoria e oblio. Più che nel passato, va cercata nel suo costante divenire.” Il libro si conclude con un aneddoto sul cibo che mi aveva lasciato alcune perplessità (lo riporterò comunque a vostro beneficio), ma ora mi preme dire che ho ricordato questo libro a seguito di un commento apparso sulla bacheca facebook di MadeinBrescia – Mib a proposito del breve articolo dedicato ai Fratelli Trami “Non ho parole. Seminare la cultura della Birra a Brescia. ci sta.. E che lo faccia “Made in Brescia” mahhh..” Ho sempre pensato che sia fondamentale conoscere le proprie radici, le tradizioni dei luoghi in cui si è nati o nei quali si sia trascorso una parte più o meno lunga, ma densa e importante, della nostra esistenza. Senza questo bagaglio diventa arduo il confronto, il dialogo, il reciproco arricchimento, le tradizioni diventano sterili, non danno più frutti. Premesso questo perché non parlare di cultura della birra nel bresciano? Abbiamo alcuni microbirrifici interessanti, altri ne stanno sorgendo, ci sono negozi in città che propongono birre proveniente dal nostro paese, dall’Europa e dal resto del mondo che poco o nulla spartiscono con quella decina di marchi commerciali che danno di questa bevanda una pallida e limitata idea. Abbiamo forse paura che la nordica bevanda (ma sumeri ed egizi ne sono i lontani precursori) offuschi il più rassicurante, in quando tradizioni, vino? Non credo esistano paragoni tra produttori di vino e birra nella nostra provincia, numericamente poi non esiste nemmeno la possibilità di un confronto, credo invece sia importante diffondere una cultura del buono, del diverso inteso come non standardizzato, non seguace di quel “good enough” già citato in questo blog. Oppure vogliamo un vino che non sia troppo alcolico, troppo sapido e minerale, troppo acido o troppo tannico. Che abbia profumi fruttati, magari monocordi ma poco importa, che tranquillizzi i nostri gusti infantili, e nemmeno senza perdere tempo nel cercarlo tra qualcosa di esistente (ce ne sono di piccoli/grandi vini quotidiani nel bresciano), meglio produrlo ad hoc. Così per la birra: lungi da eccessi olfattivi ma in particolari gustativi. Niente amari che ti facciano pensare, complessi, erbacei e con mille sfumature. Niente corposità invadenti, la birra deve avere un “watery” estremo, palleggiare senza resistenza da un lato all’altro della nostra bocca e, per carità, si deve bere con una bella pizza, poco importa con cosa farcita o come lievitata. Dobbiamo bere e bere, dissetarci e dimenticare ecchediamine.
Ecco credo che parlare di una cultura della birra sia, prima di tutto, parlare di una cultura del cibo, di un approccio che renda rispetto al cibo/bevanda e a noi stessi, eviteremmo così anche gli eccessi o quanto meno li limiteremmo. Introdurre questi concetti con qualcosa che è più vicino alle nuove generazioni potrebbe essere una sorta di chiave d’ingresso e di lettura per diffondere curiosità e attenzione verso quest’aspetto fondamentale della nostra esistenza, che il bere e il mangiare sono ben più che l’introdurre calorie e si riflettono e propagano dall’economia all’ambiente, dalla storia passata al nostro futuro.
Come promesso concludo con l’aneddoto accennato, è di Don Piero Gallo parroco nel quartiere di San Salvario a Torino, e parla di un couscous realizzato con la ricetta originale e del commento fatto da un bimbo marocchino che trovava più buono quella della propria mamma perché intervallava ogni strato con uno di tortellini … Ecco qui, pur sorridendo della “felicità” del racconto, rimango dubbioso sul particolare, per di più confortato dall’attuale abitudine, imparata da una famiglia marocchina durante una cena etnica nella scuola delle mie figlie, che vuole abbinato il couscous alla Coca-Cola …
Caro Carlos,
condivido spesso la sostanza delle tue riflessioni ed anche stavolta non faccio difetto a tale tesi.
Credo anche io che la birra artigianale rappresenti un grimaldello per scassinare la molle accondiscendenza ai gusti mediocri dell’industria e sto cercando di diffondere tale abitudine (il consumo, nella adeguata quantità, di birra non industriale) tra i miei conoscenti.
A presto!
bel discorso…..peccato sia tardi..ma un produttore di birra nel mio gruppo?
vi faccio eridere saltando di palo in frasca…..ieri mi chiama una signora che mi ha chiesto un produttore di grana padano che riesca a garantirle 500 forme mese….per un bisness con gdo estera…..vi lascio dubbiosi sulla mia risposta.
saluti cordiali
:-O)
Provvediamo subito, giro il tuo commento ai Fratelli Trami …
P.S.: le hai detto “Ah mi spiace avesse detto 532 forme, magari …” 🙂
Eccomi, presente… con il mio consueto ritardo. Rispondo in qualità di produttore di birra artigianale abbracciando i concetti fin qui esposti e sottolineando addirittura, (senza far retorica) che non credo importi più di tanto se si parla di birra, vino, salumi, formaggi, olio, frutta, verdura, carni e chi più ne a più ne metta, fosse anche parlare di servizi alla persona; il vero concetto sta nel parlare di qualità e benessere, di sapori unici e inequivocabili, di riscoprire il sapore di un bel bicchiere di latte fresco(non me ne vogliano ne i colleghi ne i produttori di vino) e con fresco intendo quello appena munto quello dei “fatidici” distributori sparsi nei vari comuni, per intenderci. Ed ora non polemizziamo se sia meglio la birra oppure il vino con i casoncelli di Longhena, gustiamo semplicemente quel gusto e profumo inconfondibile che abbiamo perso ormai da tempo, perchè troppo assuefatti dal piattume e grigiume di scaffale da ipermercato. Poi perchè no, se i prodotti sono della nostra terra, meglio ancora, teniamo alta la bandiera e buona vita a tutti…