Metti una sera a Zibello

Sempre più convinto non esista tradizione, tipicità, identità senza confronto. Anzi, alcuni tratti prendono forma, nascono proprio grazie al confronto con altre tradizioni, altre culture del cibo – mi fermo, per ammessa ignoranza, all’ambito enogastronomico -. Ragione in più per condividere una bellissima serata in quel di Zibello, presso il B&B Casolare Fratina, grazie al cortese invito di Giuseppe Tognazzi che ad altre attività, sempre nel campo del cibo, ha da qualche tempo aggiunto una partecipazione societaria al salumificio Squisito, piccola realtà artigianale in provincia di Parma, Diolo di Soragna per esattezza, capace, grazie all’abilità di Angelo Capasso, di proporre salumi di grande livello.

Protagonista, per me unico sino alla scoperta dell’intrigante menu, sua maestà il culatello, la cui lavorazione fa parte del patrimonio di conoscenze ereditato da Angelo dai nonni, «mezzadri e norcini della famiglia Guareschi». E i Guareschi sono proprio quelli di Giovanni, l’autore ed inventore della saga di Don Camillo e Peppone, condensato d’umanità proiettato in quella bassa gravida, secondo stagione, di nebbie e di sole che picchia implacabile sulle zucche dei cristiani che vi dimorano. Chi di voi ha letto il racconto contenuto in Mondo Piccolo e dedicato alla figura di Emporio Pitaciò, che da tenore famoso ritorna al suo paesello: «L’oste, che aveva tagliato sei culatelli e otto salami prima di trovare due pezzi perfetti, si sentì morire…».

Con tanta discendenza, e altrettanta passione e competenza, Angelo non può che realizzare salumi di raro equilibrio, mai soverchiati da eccessive sapidità o incontinenti speziature. In sequenza quello che abbiamo affrontato.

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L’aperitivo, dobbiamo pur dargli un nome, era costituito da due diverse stagionature di Parmigiano Reggiano, rispettivamente 30 e 60 (sessanta…) mesi, servito con tre marmellate diverse, che ad onore del vero non ho nemmeno considerato. Estremamente godibile il primo, decisamente più complesso il secondo senza tuttavia risultare minimamente asciutto o salato: la sua collocazione ideale sarebbe stata al termine della serata, allora sì alternando piccoli assaggi con e senza accompagnamento. Ovviamente non è stato disdegnato neppure in quell’inusuale collocazione.

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A seguire il primo piatto di salumi con nell’ordine: un freschissimo come natura e tradizione vogliono, strolghino, solo una quindicina di giorni alle spalle esprimeva tutta la dolcezza della tipologia che lo rende, a mio avviso, uno dei compagni più felici e pericolosi, non ci si fermerebbe praticamente mai, di un aperitivo o di un’improvvisata merenda. Due varianti di «zibaldino», salame ideato da Angelo per realizzare un anello di congiunzione tra il più facile e giovane strolghino e il più impegnativo e stagionato Felino. La prima interpretazione a base di maiale pesante, la seconda di maiale nero. E le due tipologie alla base segnavano decisamente il risultato finale. Quasi incredibile la pancetta carca di 14 mesi di stagionatura, la fetta si scioglieva letteralmente in bocca con la parte grassa a fare da viatico a quella, abbondante, magra, senza lasciare patina alcuna sul palato e senza costringere a ripetute masticazioni. Merito di questo risultato, oltre all’abilità del norcino dico io, è secondo Angelo la maturità delle carni del maiale pesante, dove umidità e collagene sono ormai ricordo. A concludere una spalla cotta, seguendo la tradizione, in vescica e in pentola a bagnomaria per 16/18 ore: per conferirle profumi cipolla, prezzemolo e vino bianco. Definirla solamente buona sarebbe farle torto.

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Ed ecco giungere, come dicevo, il protagonista della serata: un piatto di Culatello contenente: culatello di maiale pesante 18 e 24 mesi di stagionatura, culatello di maiale nero 27 mesi di stagionatura. Bell’inizio con il 18 mesi ma è con il 24 – qui vige In medio stat virtus – che si raggiunge il miglior compromesso tra sensazioni gusto/olfattive e facilità di consumo, discorso a parte per il 27 mesi di nero che offre a chi apprezza queste sfumature, un ventaglio di profumi e sapori a sé stanti. Nota comune ai tre la grande pulizia naso/bocca: scordatevi quei muffati che alcuni spacciano per tipicità, qui le note di cantina ci sono, ma accompagnano il salume senza soffocarlo. Da notare come 24 mesi e 27 «chiedevano» a mio avviso vini affatto differenti. (una bella foglia di sedano messa al centro del piatto per fini estetici veniva prontamente rimossa per non turbare la sinfonia di profumi emanati).

E qui mi sarei tranquillamente fermato se non mi fosse arrivato davanti un risotto con pasta di strolghino, sfumato con del Lambrusco e servito con al centro una quenelle di gelato al parmigiano… Sul finale un manipolo di coraggiosi rispondeva all’offerta di un «hamburger» sempre a base di pasta di strolghino, meno salata rispetto a quella usata per il confezionamento del salame e godibilissima (ammetto di averne assaggiato una metà…) in questo suo utilizzo. Omaggio a Davide Tanzi, collaboratore del salumificio e «cuoco» della serata, uno scatto per la sua interpretazione del classicissimo Tiramisù

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Meritano una citazione i vini serviti in abbinamento, tutti dell’azienda agricola Bedogni e raggruppati sotto il nome de Le Barbaterre. Presente la produttrice abbiamo degustato, sì lo so in questo caso appare eufemismo, l’Orlando, pinot nero vinificato con metodo tradizionale, il Besmèin Capolegh (Marzemino dell’Emilia) vinificato in rosa, e il Lambrusco dell’Emilia. Entrambi rifermentati in bottiglia sui lieviti. Mi piacerebbe assaggiare con più calma il primo, immediati e piacevoli gli altri due con il Lambrusco, lo stesso utilizzato per il risotto, che ben giocava sui salumi più grassi, come del resto faceva il Besmèin, a suo agio anche con il culatello più giovane.

Impallidiscono i prodotti che la GDO offre in nome di quella che io definisco falsa democratizzazione, e che colpisce tutti i prodotti in odore di esclusività, vera o supposta che sia. Accade per il salmone affumicato, per il Parmigiano Reggiano e il Grana Padano, accade per il culatello, acquistato a stagionature abbreviate, affinato in celle… Qui gioca l’estrema selezione delle carni di partenza, rigorosamente locali, la cura della cantina che periodicamente viene ripulita affinché solo le muffe «buone» vi allignino, le stagionature importanti, l’attenzione quasi maniacale per ogni dettaglio. Ma, ça va sans dire, siamo alle solite.

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