Ammetto di conoscere poco, parlo naturalmente di ristorazione e produzione vinicola, la confinante provincia bergamasca, qualche piccolo miglioramento nell’anno di East Lombardy ERG (2017), grazie alla figura di Silvia Tropea Montagnosi: resta esemplare nella mia memoria la sua estemporanea lezione sugli Scarpinòcc. Così ho colto al volo l’occasione offerta dalla presentazione di alcuni piatti del nuovo menu stagionale della Trattoria Visconti di Ambivere, una cinquantina di minuti traffico permettendo, da Brescia. L’idea di Daniele Caccia, sala e cantina nonché membro della famiglia che storicamente, la mamma Fiorella Visconti sala, il papà Giorgio Caccia sala e orto di «casa», il fratello Roberto in cucina, gestisce il locale attivo, all’inizio come osteria con gioco delle bocce, dal 1932, di accompagnare (cade, giustamente, un concetto restrittivo di esasperata ricerca dell’abbinamento) i vini di tre piccoli/grandi produttori vitivinicoli della zona, più un «intruso» franciacortino, alle nuove proposte.
Proprio «all’intruso», Gigi Nembrini in rappresentanza di Corte Fusia, azienda che ho avuto il piacere di tenere a battesimo sulla stampa locale nell’ormai lontano 2013, il compito di aprire la sequenza con il Franciacorta Brut Docg 2016 (da Magnum), ottima annata per il Monte Orfano, 70% Chardonnay, 20% Pinot Nero, 10% Pinot Bianco con un residuo zuccherino inferiore ad 1 gr/l, segnato dal vezzo di utilizzare comunque la dicitura Brut per la tipologia: vezzo che si traduce concretamente in un vino dove è l’equilibrio a farla da padrone, con il risultato di non tradire in negativo la quasi assenza di zuccheri con sensazioni marcatamente acide e spigolose. Aperitivo dunque, ma anche efficace compagno delle prime portate. S’inizia con una Crema di piselli, caprino della Cascina Ombria e polvere di liquirizia, dove il nome del piatto coincide pressoché integralmente con l’elenco degli ingredienti, pochi, semplici, buoni. Una nota per il formaggio fresco protagonista di un divertito gioco di parole: Cascina Ombria si trova a Caprino Bergamasco, neppure una decina di chilometri da Ambivere, dunque un caprino di…
Un Baccalà alla veneziana o più precisamente della Polenta abbrustolita con baccalà mantecato all’olio extra vergine d’oliva leccino di Leali di Monteacuto il piatto seguente. Di là dalla più che corretta esecuzione, fondamentalmente classica, m’interessa evidenziare due particolari. Primo: la polenta abbrustolita, modalità di preparazione che ha un suo indubbio fascino, è fatta con del loro mais, una varietà locale recuperata che si esprime in una spiga di piccole/medie dimensioni, con cariossidi spinose, il Mais rostrato rosso dell’Isola. Secondo: l’utilizzo di un olio del Garda bresciano, prodotto da una bella realtà come quella dei Leali di Monteacuto, il Monovarietale Leccino (Leccino 70%, Casaliva 10%, Muraiolo 10%, Pendolino 10%.), dai sentori di frutto verde e sfalcio d’erba, solitamente più morbido e meno «aggressivo» della Casaliva.
Compare sulla tavola il secondo vino e la prima sorpresa: non certo perché il Franciacorta non meriti ma è dimensione che come detto conosco decisamente meglio, mentre da qui in poi sarà un susseguirsi di sensazioni inaspettate. Driade Felice Terre del Colleoni DOC 2017, non mi soffermo certo sulla DOC che, in tutta onestà, mi lascia un filo perplesso, di Le Driadi Slow Farm, ma condivido con piacere la scoperta di un Merlot in purezza lontano anni luce dagli stereotipi di questo vitigno, originato da una piccola vigna recuperata, terreno in pendenza, biodiversità, biodinamica, vigne di almeno vent’anni… Grazie al lavoro di una coppia singolare – da un punto di vista squisitamente agricolo – costituita da Gabriella, biologa, e Luciano Chenet, ingegnere meccanico, presente alla degustazione. Il vino, lieviti indigeni, poca solforosa… È fruttato, quasi vinoso, note speziate, fresco e piacevolmente «ruvido» in bocca, da bersi a temperatura di cantina con l’avvertenza di moderarsi …
A seguire, torno ai piatti, un Medaglione di bollito Rivisitazione a medaglione del nostro bollito con salsa verde e senape. Mi sono ripromesso, la stagione va dal primo di novembre sino a febbraio (ma ieri visto il tempo non ci sarebbe stato poi così male…), di ritornare in questo luogo per il carrello di bolliti, ormai chimera da inseguire nell’attuale ristorazione. Intanto ci si accontenta, si fa per dire, è solo gioco di parole, di questo intrigante medaglione di carni varie che centellino un poco a malincuore, come del resto sto facendo coi vini, giacché il palato vorrebbe altre grammature. Un altro uso della farina «di casa», questa volta sotto forma di croccanti cialde.
Giunge il momento del Risotto Carnaroli con ortiche, stracchino all’antica delle valli orobiche presidio Slow Food e funghi pioppini, uno dei piatti che ho personalmente più apprezzato: ben mantecato, ma senza eccessi, il risotto, assolutamente degno di nota lo stracchino a latte crudo e «munta calda» (di necessità virtù si potrebbe dire), piacevole ancor prima come consistenza che sapore la presenza dei funghi pioppini (coltivati).
Si cambia decisamente registro per il secondo Merlot proposto: Téssere Merlot della bergamasca IGT 2015 dell’Azienda Agricola Sant’Egidio, un anno in botti da 300 litri in rovere. Ad unirlo al precedente, oltre al vitigno, una visione simile sui temi del rispetto dell’ambiente, della biodiversità, della fondamentale importanza del lavoro in vigna. Lo ribadisce con forza Carlo Ravasio, sin dall’inizio l’azienda ha seguito il percorso della vitivinicoltura in biologico, nel sito di fatto si può leggere di un «rapporto di simbiosi, bilaterale, complementare e reciproco tra l’uomo che vive della terra e la terra che rivive nell’uomo.», parla di come il terreno sia vivo, a differenza di quanto accade nei vigneti gestiti con trattamenti sistemici. Assaggiando il Tessere (anche questo da Magnum come l’iniziale), si rimane felicemente sorpresi dalla pulizia, dall’integrità del vino, dal volume e dall’eleganza delle sensazioni olfattive, i sentori fruttati sono qui in sottofondo, emergono gli speziati, del leggero cuoio, qualche nota tostata. Il tempo può ancora migliorare questo vino importante ma dalla buona beva, ancora un filo segnata dal suo passaggio in legno.
Arriva uno dei piatti «simbolo» della trattoria, i Casoncelli della nonna Ida … come da tradizione della nostra famiglia dal 1932. Pasta volutamente «povera» di uova, un ripieno caratterizzato dalla percettibile presenza del dolce, ennesima riprova di come le paste ripiene siano davvero uno dei patrimoni della nostra cucina, nati dalla volontà di racchiudere in un involucro quanto fosse disponibile…
Il Coniglio alla bergamasca 2.0 Polenta di mais nostro, coniglio nostrano al vino rosso e lombo spadellato rappresenta l’unione, la felice convivenza nello stesso piatto di una materia prima trattata sia tradizionalmente – vino rosso, lunga cottura – che con cottura breve in modo da preservare la relativa succulenza della carne di coniglio. Ancora mais rostrato rosso dell’Isola, questa volta utilizzato per una tradizionalissima polenta, ma anche del Paruch (da noi in Valcamonica Perüch ma anche Chegói, Farinèi…) in italiano Spinacio selvatico o Buon Enrico (Chenopodium bonus-enricus) a far da letto al lombo spadellato. Diverse consistenze, sapori, eguale piacevolezza.
Colpo di bacchetta (magica?) ed ecco apparire un vino in grado d’incuriosire anche il più smaliziato degli assaggiatori, un azzardo (che poi non si rivelerà proprio tale) servirlo dopo i rossi, meno con una carne bianca che si presta, nonostante il liquido di cottura, all’abbinamento con del bianco che «bianco» non è, vestendo il bicchiere di un emozionante arancio dorato. È il Rukh 2015 dell’Azienda Nove Lune, che utilizza solo vitigni resistenti, in questo caso 50% Bronner e 50% Johanniter. «Conduzione vigneti Metodo biologico, vendemmia … eseguita … a mano, come tutte le altre operazioni in vigneto. Le uve raccolte vengono diraspate a rulli aperti per lasciare intatti gli acini. Successivamente vengono poste a fermentare sulle bucce in anfore di terracotta con frequenti follature manuali. La macerazione sulle bucce dura ben oltre la fermentazione, per alcuni mesi. Dopo la separazione dalle bucce il vino continua l’affinamento nelle anfore fino all’imbottigliamento.» Risultato? Un vino dal naso particolare che sfugge a quella sorta di omologazione che le lunghe macerazioni assegnano solitamente ai vitigni a bacca bianca, qui abbiamo agrumi e le loro bucce candite, ricordi di cipria… Serve tempo e concentrazione per farsi strada nel volume delle sensazioni e allo stesso tempo fa pensare a una sua quasi contraddittoria versatilità negli abbinamenti, oltre che alla possibilità di viverlo come vino da bersi in perfetta solitudine, affondando più e più volte il naso nel bicchiere (anche vuoto). Lui è Alessandro Sala, presidente dell’Associazione Piwi Lombardia che ha di fatto sede presso la sua azienda.
Ci si avvia alla conclusione non senza provare tra i piatti elencati una fetta generosa per tipo di due salami dello stesso produttore e con la stessa composizione ma elaborati in momenti diversi. Le dimensioni e i budelli importanti, la giusta percentuale di grasso, le probabili ottimali condizioni di stagionatura, permettono a questi salumi di affrontare con disinvoltura il tempo: circa 6 mesi per il più «giovane» che arrivano a quasi 18 per il secondo. Se per il primo i giudizi sono pressoché unanimi – ottimo prodotto -, l’altro divide i presenti: i sentori si fanno decisamente evoluti, sfuggendo in parte ai classici riconoscimenti per questo tipologia di prodotto, possono piacere o meno, vero è che il provarlo regala comunque sensazioni che di rado è possibile incontrare. Si parla, quasi ovviamente, di micro-produzioni, 3-4 suini, alimentazione non industriale, cura certosina nel confezionamento… Realtà che davvero si fatica a trovare ma che potenzialmente indicano una strada da percorrere – specie per le condizioni di allevamento – se si vogliono tenere in vita alcuni gioielli della nostra norcineria. Commenti in gran parte analoghi per la selezione dei formaggi, pressoché tutti locali con prodotti come lo Strachitunt, lo Stracchino all’antica delle valli orobiche, alcuni caprini, e una buona ricotta che provo con un filo di miele.
Del dolce finale, Bavarese alla mentuccia, fragoline di bosco dell’Albenza, utilizzo la presenza di queste ultime per introdurre uno dei motivi fondanti del lavoro quotidiano di questa famiglia – e dei loro collaboratori -, ossia l’utilizzo e la conseguente ricerca di prodotti e materie prime che sfuggano sia all’omologazione dell’industria alimentare, anche di quella qualitativamente elevata, che di quella che personalmente definisco come «omologazione verso l’alto», con l’utilizzo di quelle realtà distributive che sì propongono, ci mancherebbe, prodotti validi e importanti, ma finiscono per appiattire il ventaglio d’ingredienti a disposizione delle cucine, dimenticando piccole realtà, locali o meno, ché non sono difensore di quel km 0 sovente svuotato di contenuti ed eletto a salvifica etichetta, in grado di caratterizzare, rendere uniche le proposte di un locale rispetto ad un altro. Ritrovo questa sensazione nella descrizione da parte di Fiorella Visconti del Paruch o del mais utilizzato, di Daniele per i salami, i vini, i formaggi, il pane… O ancora dell’intera famiglia a proposito dell’orto «di casa».
Accanto a questo «pilastro» della loro cucina, l’intenzione, il desiderio di esprimere – le parole sono di Daniele Caccia – «quella che per noi è la cucina bergamasca tradizionale», dove quel tradizionale non è vincolo, imperativo o diktat ma guida, direzione. Altro esempio sta nella carta dei vini che, con particolare impegno sulle proposte della provincia, cerca di sfuggire ai condizionamenti di mode e distributori, offrendo una più che discreta, nonché personale, selezione. Naturalmente il tutto è sempre perfettibile ma ne vorrei di locali con quest’impronta, anche nel nostro bresciano…
Last but not least, mi si perdonerà se trascuro piccola pasticceria o altro, una bottiglia che, pur conoscendo la tipologia, mi ha commosso: Moscato di Scanzo DOCG 2015 dell’Azienda Agricola Biava, un fuori quota, unico passito (ma non ci aspettino mollezze o tratti stucchevoli) da uve a bacca rossa , dalla più piccola, ma tra le più grandi, DOCG italiane, Qui, a mio modesto avviso, saltano abbinamenti più o meno fantasiosi per fare spazio a un incontro senza mediazioni con il vino, e il concetto veronelliano di vino da meditazione trova pieno compimento. Spezie, rosa e viola appassita, ricordi di uva passa, piccoli frutti… E su tutto, pressoché immediata, una netta sensazione d’incenso, identitaria, quasi ieratica, che dopo il primo stupore fa avvicinare il naso ancora e ancora, mentre la bocca incontra un dolce non dolce sorretto da acidità e vena tannica. Manuel Biava, presente come gli altri produttori, mi dice come le note riconducibili a fiori e frutta, sia pure passiti o secca, vadano col tempo diminuendo per lasciare spazio alle spezie, ai terziari… Rese bassissime, selezioni al limite del masochismo, Manuel parla dell’uso di forbicine da manicure… Del coraggio di non imbottigliare il vino se l’annata non è all’altezza e della nota d’incenso come peculiare del vigneto. Giù il cappello signori.
La quasi totalità delle immagini è cortesia della famiglia Visconti, le restanti sono da me scattate o reperite sui siti delle singole aziende vinicole. Come sempre resto a disposizione per qualsivoglia necessità a tale riguardo.
La Trattoria Visconti di Ambivere ha ottenuto nella guida Osterie d’Italia Slow Food nell’edizione 2020 ill triplice riconoscimento chiocciola, bottiglia, formaggio aggiudicandosi inoltre il premio per la cantina più significativa dell’intero territorio italiano.
La Trattoria Visconti premiata da Slow Food: miglior carta dei vini d’Italia