(*Omaggio ai Public Image Limited di John Lydon)
D’accordo, questa non è una recensione, non può esserlo, mancano completamente alcune premesse di base quali anonimato, assenza di qualsivoglia rapporto personale con il titolare dell’esercizio… Non è neppure una difesa d’ufficio motivata da alcune recensioni – lo sono queste? – lette tra l’orto e l’occaso, tra Google e TripAdvisor, tra il divertito e il non so. Ammetto tuttavia che da queste ultime è in qualche modo nato il desiderio di dire la mia, desiderio a cui ha dato corpo una recentissima visita decisa all’improvviso, mentre con alcuni componenti della mia famiglia più Andrea – che cito perché darò spazio a una sua corretta osservazione – ci portavamo verso Botticino Sera.
All’improvviso dicevo, abbiamo deciso di fermarci alla Cascina dei Sapori, luogo voluto e diretto da Antonio Pappalardo, ancora giovane – classe 1988 – ma già collaudato imprenditore e pizzaiolo, presente in diverse manifestazioni, affiancato da un valido gruppo di collaboratori e da un’attiva agenzia di comunicazione. Un personaggio conosciuto insomma, sia per merito suo che per l’attenzione a lui rivolta da blog, quotidiani locali – tra cui un mio breve pezzo sul Corsera Brescia nel 2014 -, riviste e quotidiani nazionali ed esteri, guide… Ora tutto questo può piacere o meno ma trovo poco comprensibile citarlo come difetto, onta da scontare.
Veniamo alla nostra esperienza. Il terreno era ancora umido di pioggia, particolare che trovo difficile da imputare alla diretta responsabilità del nostro, così come le poche centinaia di metri percorsi per giungere al suo locale, prendo atto della mancanza di un parcheggio dedicato, ma vero è che nella vita ho affrontato, anche a tavola, ben altri disagi. L’accoglienza è cordiale, bella forza ti conoscono direte, da parte di tutte le persone che incontro, accoglienza che mi pare sia riservata a tutti coloro varchino quella soglia: certo se andassi il sabato sera, cosa che evito accuratamente, troverei probabilmente più concitazione, magari fretta, con logico effetto su tempi di attesa e, magari, su alcuni dettagli.
Decidiamo di mangiare all’esterno, protetti da una tettoia e con un allestimento della tavola curato, colorati i bicchieri dell’acqua – io continuo a prediligere la trasparenza per qualsiasi liquido vi sia contenuto, ma in questo contesto non mi paiono stonare – corretti quelli serviti qualora si scelga del vino o altra bevanda alcolica. Nei nostri è stato versato del Franciacorta Dosaggio Zero 2013 di Faccoli, incredibilmente ricordo nome, cantina, millesimo e prezzo, tutti riportati nell’apposita lista, trovandolo in linea con quanto volevo bere. Risparmio così l’utilizzo di frasi come «Buono ma non eccezionale. Mi aspettavo di più. Un po’ caruccio. Con un vino nella media. Una bottiglia di bollicine italiane. …» che sono magari comode ma non aiutano di certo a capire se nel conto finale una parte più o meno importante è proprio dovuta alla, alle, bottiglie scelte.
Ritrovando poi in lista due etichette di Sidro, le proviamo in successione – bicchieri nuovi per ognuna – con l’approvazione di Andrea che non aveva avuto sinora l’opportunità di provare il «vino di mele» dei paesi anglosassoni: studente presso la Libera Accademia di Belle Arti di Brescia, ha espresso invece qualche perplessità su grafica e conseguente fruibilità del menu (riporto senza commentare a chi di dovere). In sala Alessandro Hoch, sempre disponibile ad assecondare i desideri del cliente, fornendo, se richieste, precisazioni e commenti (Quanto ritorna un Sidro di pere?). Ora leggendo queste prime note qualcuno avrà rilevato una certa puntigliosità, una percettibile leziosità… Sono la mia difesa nei confronti di chi non riesce a trovare una sua linea media, un punto di equilibrio, un centro di gravità permanente, oscillando tra «Personale opprimente, da togliere il respiro e Personale distratto e svogliato, dovrebbero cambiare mestiere ». Siete avvisati nel caso vogliate continuare la lettura.
In attesa dei piatti principali, ordiniamo delle Chips di patate – altra dimensione rispetto al migliore dei «sacchetti» – e dei Calamari e Gamberi rossi fritti, croccanti e non unti: una porzione di entrambe le preparazioni sono bastate a 4 persone per spiluccare in compagnia di un sorso del Franciacorta scelto, volendo esagerare sarebbe bastato aggiungerne una del secondo fritto. Due commensali hanno scelto il Fish burger con ventresca di tonno (prima CBT poi panatura con farina di mais e rapida frittura), insalata, pomodori e guacamole, io ho diviso una pizza degustazione Crudo di gambero rosso, finocchio, burrata e yuzu con mia figlia (ma una fetta, si presentano tagliate in 8 spicchi, l’hanno assaggiata tutti, così come io non mi sono fatto mancare un morso al Fish burger…). A dare rinforzo una classica: Un Classico… Pomodoro San Marzano, burrata e acciughe di Cetara, resa particolare dall’impasto frutto di un Blend di farina di farro Monococco (80%) e farine semi-integrali.
Com’erano? Buone entrambe, in diverso modo: della prima la croccantezza della base e il felice insieme gambero, burrata, finocchio, rinfrescato dall’agrume giapponese e intrigante alla masticazione grazie alle diverse consistenze. Della seconda la sapidità controllata delle carnose acciughe di Cetara in contrasto alla suadenza della burrata e la morbidezza dell’impasto a base prevalente di farina di farro Monococco. Nonostante l’età avanzata ricordo ingredienti, consistenze, sapori e persino, leggete, leggete, il perché mi siano piaciute.
Concludiamo con un assaggio, informale e per nulla pomposo – questa per te Antonio – di dolci, opera di Matteo Attianese, pasticcere e, come si può leggere nel sito, braccio destro di Antonio -. Ci arrivano un Tiramisù (non più scomposto ma tradizionale e attento: i savoiardi sono con farina di riso, quindi senza glutine), un carpaccio di Ananas con Granola e gelato Fior di Capra, anche questo privo di glutine e una Cheese Cake della Cascina «capovolta», si parte da una gelatina di lampone per arrivare a delle briciole di sbrisolona. Naturalmente il vituperato Tiramisù Scomposto da tanti additato come la punta di diamante delle follie di Matteo – follie, si badi bene, in senso negativo – è ora reclamato da molti, certamente non soddisfatti dalla «banale», e ghiotta, versione classica.
Ringrazio di cuore, nessuna ironia, chi ha voluto leggere questo mio piccolo sfogo, in parte lo è inutile dirlo, ma oltre ad avere cenato in modo più che soddisfacente mi sono chiesto del perché di alcune affermazioni – nonostante ci stiano la serata storta, la discrepanza tra ciò che si pensava di assaggiare e quanto effettivamente si è provato, i gusti personali, la mancanza di fantasia o di un minimo di allenamento nel frequentare posti un poco «diversi», i litigi con il o la partner, i cani che abbaiano nel vicino condominio, la prevenzione eletta come unico approccio, la pesatura dei salumi con l’occhio bionico a bilancia incorporata, il luogo che è una «taverna per VIP», la composizione della pizza che non si può variare, i costi spropositati (chissà perché citando quasi esclusivamente quello della pizza degustazione più cara, senza ovviamente dire come sia composta), le macchie solari, i lividi sull’anima e i Pippi, Pluti e Paperini – senza trovare, al momento, convincenti risposte.
P.S.: questo scritto è in gran parte valido per qualsiasi locale si sforzi, magari non sempre riuscendo, di offrire il meglio ai suoi clienti, utilizzando tempo, competenza , passione e buone materie prime. Ad evitare inutili commenti specifico che le basi in legno su cui poggiano le preparazioni sono state utilizzate unicamente per realizzare le fotografie e non per il servizio vero e proprio.
Colonna sonora: PIL – This is not a love song, Franco Battiato – Centro di gravità permanente