Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore da ubriaco.
Poi, come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi, case, colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Eugenio Montale – Ossi di Seppia
…
Ma è un’evasione pure questa, romantica.
Meglio vivere qui
e ripetere conti che non tornano
e tessere ogni giorno come ragno paziente
una trama di versi
per nulla consolatori.
Lento Goffi – Dalla Marca d’Oriente
«Non riesco a trovare altro sinonimo al verbo vivere che comunicare», iniziavo riportando questa frase di Luigi Veronelli un post di ben 9 anni fa dal titolo Cibo e vino 2.0, era esattamente il 4 aprile 2011 e ancora oggi non riesco a trovare inizio più adatto a queste poche righe che di certo non vogliono e non possono essere prezioso suggerimento ai tanti attori della ristorazione, dell’agroalimentare, in cerca di consigli, di aiuto. Troppo complessa la situazione, troppo incerto il futuro, anche quello che le istituzioni prevederanno per rendere possibile e sicura, nei limiti dell’umano agire, la ripartenza. Così a costo di risultare, eufemisticamente, indisponente mi limito a dire basta.
Basta con i siti e le pagine social dimenticate, impolverate dal disuso, dalla non frequentazione, vuoti relitti costruiti per dovere, non sentite, non vissute, permeate di obbligo e noia. Così distratte da rendere persino difficoltoso trovare l’indirizzo del locale, il numero di telefono. Così anonime da non permettere di capire che cucina si faccia in quel posto, che piatti vengano proposti, a quale prezzo. Non parliamo poi dei vini, talvolta omessi quasi, in Italia, fossero un mero, trascurabile, dettaglio, talvolta dimenticati, con annate improbabili anche per chi, come me, non crede che un bianco possa avere lunga vita, andare oltre all’anno della sua messa in commercio. Oppure, l’occhio appena allenato le coglie quasi immediatamente, fotocopie della lista di un distributore, di un’enoteca, prive d’anima e personalità.
Basta con gli anglismi, che è cosa del tutto diversa dal prevedere una comunicazione in due o più lingue. Basta con le location, il fashion, la lista up to date, il mix di sapori, profumi e fàrfara – Erba rizomatosa delle composite tubuliflore (Tussilago farfara), detta anche farfugio o tossilaggine, che cresce in luoghi argillosi e umidi; come sapientemente ci dice il dizionario Treccani -. Basta con il fingersi ciò che non si è pensando così d’irretire il pubblico, di conquistare adepti, di rientrare nell’agenda delle o degli influencer.
Basta con il km 0 guadagnato nel cash and carry più vicino, o con il produttore che dopo brillanti inizi decide che pecunia non olet e si adagia contento del successo economico ottenuto, dimenticando – non integrando si badi bene – quanto di buono l’aveva spinto ad iniziare. Basta con l’essere convinti che sia sempre migliore ciò che si produce «in casa», dimenticando che il miglior pane, solo un esempio, lo fanno i migliori fornai…Ofelè fa el to mesté verrebbe da dire.
Basta con le liste chilometriche, vale per tanti, quando sarebbe buono e giusto concentrarsi su un numero limitato di piatti ben eseguiti, partendo da prodotti scelti con passione e oculatezza, non omologati, non standardizzati. Smettiamola di seguire i re-censori di siti dall’epa gonfia di nulla che si scandalizzano se la gelateria non ha cinquanta gusti, la trattoria cinquanta piatti… Per poi finire di scegliere sempre le stesse solite, cose.
Il territorio non è moda, il piacere non è vuoto pneumatico, riscopriamo l’attenzione, vera, per ciò che entra nelle cucine, concentriamoci sul risultato che farà gioire le papille, rasserenare gli animi, rendere briosa la conversazione. Il cibo è piacere, non asettica aneddotica per riempire di assenza le pagine di giornali, riviste, blog… Il cibo si comunica se lo si capisce, lo si apprezza, lo si vive. Resta ossimoro sostanziale il recensore inappetente, astemio, poco curioso, incapace di andare oltre i suoi quattro piatti favoriti o il dilettarsi con il personaggio di turno. Il cibo è gioia, convivialità – immagino divisori in plexiglass magari dotati di interfono come blindati parlatori – è sangue, chiedo per questo venia agli esangui frequentatori d’altre dimensioni ma la mia è solo metaforica immagine: abbiamo voglia di corpo, sostanza.
Basta finzione insomma, l’elenco potrebbe e dovrebbe continuare, che ora ci sarà meno spazio, meno tempo, meno disponibilità economica e l’inganno mostrerà più facilmente il suo pallido, smunto, viso.
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