«Genera più spesso confidenza l’ignoranza di quanto non faccia la conoscenza.»
Charles Darwin – L’origine dell’uomo 1871
Poche categorie, pochi settori sono passati indenni o, addirittura, sono cresciuti nei mesi bui del confinamento. Non certo la ristorazione che arranca faticosamente a distanza di due mesi e mezzo dalla data stabilita per la riapertura, anche se la situazione è a «macchia di leopardo», per utilizzare un’espressione di Emanuela Rovelli, presidente A.R.T.Ho.B.: accanto a realtà che, pur con le limitazioni di posti causate dalle vigenti normative, hanno ripreso a pieno la loro attività, specie nei fine settimana, ne esistono altre, in particolare quelle collocate nei centri cittadini e legate strettamente ai pranzi di lavoro nei giorni feriali, che raggiungono un triste 20% degli incassi pre Covid.

Lascio ad altri il compito di analizzare il collegamento lavoro a distanza crisi della ristorazione dedicata, m’interessa invece prendere in considerazione la pressoché inevitabile selezione che, specie dopo l’estate, investirà il settore nella sua complessità. Indubbio che in molte città d’Italia, Milano probabilmente uno dei casi più eclatanti, esiste attualmente una pletora di locali della ristorazione, un numero sovrabbondante rispetto alle reali necessità e che a monte di tale fenomeno esistano più ragioni, diverse spiegazioni, alcune della quali inquietanti (criminalità organizzata, «lavanderie» di contante…). Probabilmente, non certo per cinismo, una moria di realtà claudicanti, in difficoltà già prima della pandemia, è non solo prevedibile ma in qualche modo auspicabile, ma chi scomparirà?

Saranno davvero e unicamente i più deboli, i meno adatti a perpetuare la specie, quelli non in grado di adattarsi, mutare, evolvere? Ancora non per cinismo, di là dal caso personale, potrebbe essere un fisiologico, anzi un terapeutico «salasso», temo tuttavia non sarà sempre così… Un ruolo importante nel decidere peso, qualità, valore della selezione l’avrà di fatto il pubblico – Vox populi vox Dei – e senza volere in alcun modo arrogarmi qualsivoglia ruolo pedagogico provo a fare qualche considerazione.

Da quando m’interesso in modo attivo al mondo della ristorazione, ho spesso faticato a capire alcuni dei meccanismi che stanno alla base del successo di un ristorante, trattoria, osteria… Che dire si voglia. Locali che a mio avviso poco o nulla dicono, parlo in prima battuta della loro cucina, della carta vini, incontrano il favore del grande pubblico, altri che hanno meritato o meriterebbero, sempre dal mio personalissimo punto di vista, sono scomparsi o sopravvivono a fatica. Capisco che, come premesso, sono tante le ragioni che concorrono a determinare la loro riuscita e va da sé che senza capacità imprenditoriale oggi nessuna impresa può pensare di restare a galla, ma talvolta, qua e là, accade di incontrare luoghi dove l’insieme della proposta culinaria, i prezzi della stessa, il garbo dell’accoglienza, l’attenzione in sala, la cantina, meriterebbero altro riscontro.

Da qui il senso di questo post, che può ora continuare sotto forma di più domande. Ma sono proprio necessarie quelle dieci, o anche meno, etichette per rassicurare il pubblico? Non sto dicendo che siano buone o meno buone, disconoscendo il ruolo avuto nella diffusione di alcuni vini, ma, a caso, è proprio imprescindibile la loro presenza per conferire credibilità a una carta o credibilità a un locale? Siate curiosi accidenti, lo siete per altro provate ad esserlo anche per il vino: scoprirete piccole/grandi cantine, sentori non omologati, nuove possibilità di abbinamento… E il cibo? Siete sicuri di avere provato, davvero, un pollo serio, delle verdure raccolte poche ore prima, dei formaggi a latte crudo realizzati con passione competenza, dei salumi fatti partendo da suini italiani, magari allevati in modo non intensivo… Un latte che sa di latte, un pane che sa di pane…

Ovvietà, banalità, potrà dire qualcuno, salvo poi vedere attonite espressioni quando per la prima volta fate loro assaggiare un olio, buono e serio, del nostro Garda, o altrettanto buono e serio del nostro sud… Oliva spremuta, ricordi di mandorla, di sfalcio d’erba, di foglie di pomodoro, di cardo, di carciofo, sino ai piccoli frutti rossi della Mignola, cultivar marchigiana. Oppure sentire dotte, si fa per dire, disquisizioni sulla Fasson(a), che povera lei non è una razza bovina, quella semmai è la Piemontese, ma un’ipertrofia muscolare a carico della coscia dell’animale… E avanti così tra branzini monoporzione allevati in vasca e tutto il corredo di pseudolusso di cui si beano alcuni ristoratori e i loro entusiasti clienti. Ma avete mai provato ad affondare i denti in una cipolla di Giarratana?

E allora? Allora temo che parte della selezione non toccherà luoghi che non nomino, talvolta, almeno quello si potrà dire, dalla «location» invidiabile, come se la nostra lingua non avesse termini come, appunto, luogo, ubicazione, ambientazione… Come se quell’anglismo non provenisse dal linguaggio cinematografico. Se siete giunti sino a qui un semplice, ingenuo, accorato, consiglio: frequentate posti veri, il rischio di contagio vi assicuro è lo stesso di quelli inventati, farete onore alla cucina italiana, alle nostre tante incredibili materie prime (escludiamo il burro ché pare non l’abbiamo nel DNA tranne isolate eccezioni), a chi oltre all’aspetto economico – fondamentale – conserva l’amore per un lavoro unico, uno dei non tanti che rende il nostro paese altrettanto unico. Pazienza se mi troverete retorico, se ovviamente il peso di queste righe rendono un macigno quello della farfalla di Erri De Luca, ma dovevo scriverle e ora non ha più senso alcuno il trattenersi.

Resto come sempre a disposizione per le eventuali immagini provenienti dalla rete.