“A volte c’è un’unica immagine la cui struttura compositiva ha un tale vigore e una tale ricchezza e il cui contenuto irradia a tal punto al di fuori di essa, che questa singola immagine è in sé un’intera narrazione.”
Henri Cartier-Bresson, Il momento decisivo, 1952
Premessa: queste sono personalissime riflessioni, semplicemente il frutto di altrettanto personali esperienze, di qualche lettura specifica, di conversazioni con amici che dell’immagine, per svariati motivi, ne hanno fatto ragione di vita. Non intendo convincere alcuno, tanto meno conquistare proseliti, ma ciò che continuo a vedere, e leggere, mi ha convinto a scriverne.
Nessuno, tranne, e non ne sono sicuro, qualche turista USA o del nord Europa, apprezzerebbe un piatto di pasta scotta, condita alla bell’e meglio e magari servita fredda. Allo stesso modo nessun cuoco degno di questo appellativo si sognerebbe di affidarlo al personale di sala perché lo serva a un cliente. Eppure, tranne rare eccezioni, le bacheche, i profili social di bar, trattorie, ristoranti e osterie sono ricche, ricchissime, di immagini a bassissima risoluzione, talvolta sfuocate, con sfondi drammaticamente inadatti, con tagli e inquadrature che sviliscono, appiattiscono, quanto rappresentano, senza alcuna attenzione per le luci, e le conseguenti ombre, senza descrizione alcuna…
Perché quell’eppure? Se io vedo la cura posta nel realizzare quella fotografia, importa relativamente lo strumento utilizzato, sono libero d’immaginare, presumere, che analoga attenzione, ossia minima, verrà posta nel realizzare ciò che io mangerò o, quanto meno, la vivanda mi sarà presentata con simile sciatteria, togliendo quell’impatto visivo che nella specie umana riveste particolare importanza. Attenzione non sto certo dicendo che in un piatto sia più importante la forma che la sostanza, piuttosto che entrambe hanno un valore, e che una dovrebbe essere annuncio e rinforzo dell’altra.
Ma il termine immagine ha più di un significato, non solo la rappresentazione grafica del risultato di una ricetta, ma l’insieme dei valori, delle caratteristiche, dell’identità di un locale, ossia di ciò che lo rende in qualche modo unico e diverso. Degli spaghetti conditi con salsa di pomodoro possono assumere infiniti aspetti, da della pasta di bassa qualità magari precotta e condita alla bell’e meglio con una salsa prelevata da una scatola e scaldata, a dell’ottima pasta cotta al dente in abbondante acqua e condita in un tegame con del pomodoro fresco, profumo d’aglio, un buon olio extravergine d’oliva e del basilico spezzettato con le mani… Poi impiattata velocemente e decorata con due belle foglie della stessa erba aromatica.
Così è per tutto, dobbiamo scegliere con attenzione e coerenza dove, all’interno di quelle quasi infinite varianti di spaghetti al pomodoro, vogliamo collocarci, se agli estremi, in una zona intermedia o più vicini all’uno o all’altro polo. E questa scelta dobbiamo comunicarla in modo piacevole e sintonico, con le nostre parole, con il servizio del personale di sala, con i nostri profili social e il nostro sito web… Anzi dobbiamo innanzitutto mostrarla con modalità che non contemplino la presenza fisica, perché sempre di più la scelta di sedersi a uno dei nostri tavoli sarà fatta a distanza, dal monitor di un PC allo schermo di uno smartphone.
Chi ci potrebbe scegliere vorrà, giustamente, sapere, che cosa mangerà, qual’è la nostra cucina, quali i suoi punti di forza, quale la diversità da locali simili o apparentemente tali, che bevande proponiamo e, last but not least, cosa pagherà per tutto ciò. Dovrà essere convinto che la sua scelta sia la migliore possibile in quel momento, a quelle condizioni e secondo il suo gusto. Nonostante la relativa ovvietà di quanto appena affermato esiste ancora una pletora di siti e profili social che dicono poco o nulla di tutto ciò. Alcuni esibendo una povertà formale imbarazzante, altri non riportando informazioni essenziali…
Ma anche quando i mezzi, l’attenzione, sono importanti e curati, ci viene talvolta comunicata una sensazione complessiva di freddezza, con fotografie tecnicamente ineccepibili ma che non emozionano, Chef – rigorosamente con la maiuscola – impettiti e a braccia conserte, quasi volessero sancire l’impenetrabilità del loro sapere, la distanza del loro fare, raramente mitigato da un accenno di sorriso. Talvolta posso desiderare un luogo asettico, dove mangiare senza coinvolgimento alcuno, talvolta no e devo essere messo anticipatamente nelle condizioni di capire dove decidere di fermarmi (e di spendere i miei soldi).
Trasparenza, coerenza, verità. Impariamo a dire quello che siamo, quello che facciamo, poi, magari, affideremo le nostre riflessioni, il nostro pensiero ed essenza, a dei seri professionisti ché lo traducano nel linguaggio più adatto al mezzo scelto, altrimenti assisteremo all’ennesimo vaniloquio infarcito di anglismi, frasi fatte, luoghi comuni che nell’intento di essere «di tendenza» finirà con allarmante frequenza per essere uguale per tutti, ridondante o stringato sino all’involontario umorismo.
Nello scorrere di questo blog penso di avere riportato questa frase, vera come mai, più di una volta ma, chissà perché, non lo ritengo eccessivo:
“Non riesco a trovare altro sinonimo al verbo vivere che comunicare.” Luigi Veronelli
La prima e la terza immagine sono di Nicolò Brunelli, rispettivamente una Tartara di coregone nell’interpretazione di Alberto Bertani del QB Duepuntozero e degli amuse–bouche realizzati da Philippe Léveillé del Miramonti L’Altro per un evento ufficiale del Comune di Brescia, la seconda e la quarta di Nik Barte ritrae due piatti di Nadia Zampedri della Pegaso. Tutte e quattro erano archiviate nel mio iMac, resto naturalmente a disposizione degli autori per qualsivoglia motivo. Naturalmente rappresentano una risposta in positivo a quanto detto nel post.
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