Ma cos’è questa identità?

Si sarà stancata Jessica Cani, food writer, brand strategist, consulente di comunicazione gastronomica e fondatrice di Sardegna Quanto Basta, di essere in questi giorni più volte citata dal sottoscritto, grazie – si fa per dire – a un suo post riportato su FB da Gianluigi Tiddia, altro grande sardo del settore, più conosciuto nel mondo dei social, Twitter in primis, come Insopportabile. Comprendo, nell’eventualità, il suo disagio, ma talvolta Il caso o la necessità? Certi scritti ti capitano sotto gli occhi e muovono qualcosa che, nonostante mille incidenti di percorso, di tanto in tanto si agita comunque nelle tue viscere, ed è praticamente obbligo riportarlo per poter condividere cosa mi ha spinto a scrivere questo nuovo tassello di MadeinBrescia

Negli ultimi due mesi, come ogni anno in questo periodo, il lavoro mi ha portata a spostarmi di città in città più spesso, e questo mi ha permesso di constatare e riflettere su quanto il turismo post pandemia stia snaturando in parte l’identità culturale di alcune destinazioni.
Anche a Cagliari le vie del centro stanno sostituendo botteghe e locali storici con catene di pizze, poke, all you can eat, yogurt o aperitivi che premiano occhi più grandi della pancia e ingordigia senza controllo in cui il gusto e la provenienza sembrano non interessare nessuno.
Eppure è cibo. Eppure lo stiamo dando al nostro corpo.
I social, fiere online del cibo fast, ringraziano con contenuti veloci che l’algoritmo rilancia godendo pienamente di zuccheri e grassi a basso costo.
Ma l’algoritmo siamo noi. Chi decide quali siano i contenuti che funzionano sono i nostri like. Chi decide che un locale di fast food prenda piede siamo noi. Dall’online all’offline.
Per chi crede nello sviluppo autentico di una destinazione, ciò che conta è la preservazione delle radici di quel luogo, che non significa fare sagre, ma guardare avanti con il rispetto di chi ha costruito prima di noi.
Le orge di mangiate e bevute o i pezzi di artigianato toccati con le dita unte sono lontani da qualsiasi visione, progettazione e pianificazione turistica tanto quanto l’assecondare un turista o un local disinformato che non ha fame di sperimentare.
Ho appena appreso che chiude Il Pasticcere di Enrico Maccioni. La scorsa settimana ha chiuso il Caffè Svizzero.
C’è un passo di Kitchen Confidential in cui Anthony Bourdain dice: “Siamo, dopotutto, cittadini del mondo. Vogliamo veramente viaggiare in papa mobile ermeticamente sigillate nelle province rurali di Francia, Messico, e in Oriente, mangiando solo negli Hard Rock Café o nei Mc Donald’s? O vogliamo mangiare senza paura, buttandoci sullo stufato locale, sulla carne misteriosa dell’umile taqueria, sul regalo offerto con sincerità di una testa di pesce leggermente grigliata? So cosa voglio. Io voglio tutto. Io voglio provare tutto almeno una volta.”
Occorrono consapevolezza, sensibilità e cultura.

La prima frase è quel «snaturando in parte l’identità culturale di alcune destinazioni.», sia perché vi compare per la prima volta il termine «identità», a richiamare improbabili Nescafé® in un’isola greca dove ti aspetteresti solo sketos, metrios, glikos… Sia perché mi permette di allargare subito l’orizzonte includendovi chi di quei luoghi non è il visitatore ma chi vi dimora. Ed è, a mio modesto avviso, uno dei principali protagonisti di quel degrado, di quel processo di snaturamento a a cui si riferisce Jessica. Da sempre sono convinto che se non siamo noi per primi, m’includo giocoforza, a scoprire, a recuperare, cibi, ricette, modalità di cottura e presentazione, come possiamo pretendere di proporlo ad altri? Con quale forza, quale entusiasmo e convinzione? E, si badi bene, nessuno dotato di un benché minimo senso delle cose, vuole fare dell’archeologia alimentare, del malinconico e deleterio lamentarsi di utopici bei tempi andati «ma guardare avanti con il rispetto di chi ha costruito prima di noi».

Abbiamo perso il piacere di provare, di riscoprire quanto di valido esiste, affrontiamo senza battere ciglio improbabili cibi esotici – improbabili per quanto resi tali – e, ora parlo della nostra specifica dimensione, ci facciamo prendere dall’ansia, dalla paura, quando non dal disgusto, se ci viene offerta una zuppa, del quinto quarto, dei vegetali che non siano quei quattro che ormai conosciamo e sappiamo «innocui», del pesce di lago, delle «polente» che escano appena appena dai binari del noto, delle carni che non siano esangui fettine di quarto posteriore e rigorosamente di animali da allevamenti intensivi, formaggi a cui il tempo o ceppi di Penicillum abbiano donato profumi e consistenze inusuali e ammalianti – no solo spalmabili industriali o, già osando, del grana – su questo Anthony Bourdain aveva idee ben chiare.

«Occorrono consapevolezza, sensibilità e cultura», servono stimoli, proposte, coinvolgimento, non solo dai grandi chef e cuochi dei luoghi alti e illuminati, sappiamo che sovente ciò che ci arriva dall’alto provoca, di là dall’ammirazione, dall’estasi di alcuni, una certa insofferenza, serve «reclutare» parte di chi fa ristorazione quotidiana, serve riscoprire e rivitalizzare alla grande quel mondo di osterie e trattorie che come pochi altri locali caratterizzano e identificano l’italianità, fusione unica e atipica di mille cucine regionali, provinciali, cittadine… E alla base una piccola/grande rivoluzione nel mondo della produzione alimentare, almeno in una parte di quel mondo, perché come ripete sino allo sfinimento uno storico come Massimo Montanari, è nel prodotto, nella coltivazione, nell’elemento spontaneo che sta in gran parte l’identità alimentare di un luogo, prima e con più forza che nella ricetta, da sempre e per definizione risultato di scambi, contaminazioni e incroci.

«Ma l’algoritmo siamo noi. Chi decide quali siano i contenuti che funzionano sono i nostri like. Chi decide che un locale di fast food prenda piede siamo noi. Dall’online all’offline», ci siamo abituati a delegare, ad affidare sempre e comunque ad altri ciò che, almeno in parte, ci spetta: oneri e onori si dice, no? Pigrizia, disinteresse… Salvo poi indignarci, protestare sui social, inviare lettere al Direttore presso le redazioni dei quotidiani, anche qui so di ripetermi ma come cantava Giorgio Gaber, Libertà è effettivamente partecipazione, dovremmo ricordarcene continuamente, dalle più piccole cose sino al nostro diritto dovere di elettori.

Jessica Cani chiude il suo post con questo hashtag #sardegnaquantobasta, confesso che mi ha colpito, e con dichiarata ribalderia l’ho manipolato traendone un #bresciaquantobasta, che a me suona sì d’identità, di consapevolezza, sensibilità e cultura ma anche di senso della misura, di rifiuto degl’integralismi, di talvolta vuoti e un poco logori chilometri zero. Chissà ci sia in questo un microscopico germe che si possa porre a dimora, coltivare, far crescere, in ognuno dei tanti, unici, territori italiani.

L’immagine sotto la citazione del post di Jessica Cani proviene anch’essa dal suo profilo Facebook e ritrae la cordedda di agnello con piselli e finocchietto selvatico del ristorante Il Rifugio, a Nuoro. Le altre immagini sono state ricavate da banche immagini, free e non, online: come sempre rimango a disposizione per attribuzioni, rimozioni…

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