Ma che colpa abbiamo noi

 

 

1966, sono passati più di cinquanta anni da quando i Rokes incidevano Che colpa abbiamo noi – testo del grande Mogol che ignora del tutto quello di Cheryl’s Going Home di Bob Lind, canzone di cui il pezzo dei Rokes è cover – divenuto in quegli anni sorta di inno generazionale.  Pare invece, leggendo i commenti di volta in volta delusi, irosi, inviperiti, che la colpa del crescere a ritmi esponenziali degli AYCE (acronimo per All You Can Eat) cino-giapponesi nella nostra città stia in gran parte sulle spalle dei giovani. Confesso che la cosa suscita il mio interesse, qualcosa di più della curiosità giusto per capirci, tanto da utilizzare  Facebook sia per sollecitare delle riflessioni, dei semplici commenti, che per leggere su altri profili conversazioni sull’argomento.

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Prima di entrare nel vivo del post, ha forse senso definire minimamente di cosa stiamo parlando: gli All You Can Eat – letteralmente Tutto Ciò Che Puoi Mangiare – sono locali della ristorazione in cui a prezzo fisso, attualmente attorno ai 12,90 euro a mezzogiorno e 19,90 la sera, è possibile consumare le proposte per un numero teoricamente illimitato di volte. Di là dalle capacità dei singoli stomaci, la formula è rigida per quanto riguarda i piatti, solitamente, solo un esempio, a mezzogiorno non è previsto alcun assaggio di sashimi, il pesce crudo senza la presenza del riso, offerto invece alla sera con le tanti varianti di sushi, qui il riso è ingrediente immancabile,  protagoniste del pranzo.

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I giapponesi lo consumano di rado, contrariamente a quanto si possa pensare, è cibo importante, soggetto a regole precise, non certo quotidiano e richiede, specie nelle versioni più tradizionali, monacali nella composizione, materie prime di altissimo livello e un’esperienza pluriennale nella  preparazione. Il poco che so a tale proposito viene quasi esclusivamente dalle mie letture, ma è sufficiente a farmi dire che quanto vedo in giro è  pallida, lontana, imitazione di ciò che potrebbe e dovrebbe essere. Sensazione confortata dal binomio citato – sono quasi esclusivamente cinesi ad aprire e gestire gli AYCE nostrani – e dai costi che fanno invidia alla più scalcagnata delle trattorie.

Non stiamo parlando di pasta primo prezzo condita con pomodoro cinese (anche qui, caspita) e olio extravergine d’oliva a dueeuroenovantanove al litro, ma di pesce crudo signori, che quando mi capita di mangiarlo, cosa che ho sempre fatto anche quando in Italia lo si proponeva, sempre esempio, solo in alcuni luoghi della laguna veneta o in Puglia, lo pago, chissà perché, molto di più che 12,90 o 19,90 e non sto parlando dell’intera consumazione ma di una sola portata, talvolta ridotta a tre/quattro gamberi o due/tre scampi, o una tartare, o tre/quattro ostriche sia pure di unica piacevolezza. Anche applicando economie di scala qualcosa non torna.

Consci di tutto ciò, qui s’inizia ad entrare nel problema, ci guardiamo bene dal frequentare questi luoghi e arricciamo sdegnosamente le narici al solo sentirne parlare. Ma cosa diciamo e pensiamo di chi, in particolare giovani, li frequenta? Come interpretiamo questa moda – ammesso che tale sia, effimera dunque come tutti gl’innamoramenti sine materia -. Ho raccolto i più svariati commenti, le più pittoresche opinioni, ché alcune non saprei come altro definire. Per qualcuno la responsabilità, direi a questo punto l’ineluttabilità, della massiccia diffusione di questa formula nel bresciano è dovuta alla pochezza, alla miseria, della cucina locale: insomma la nostra cucina, le nostre tradizioni sono così inconsistenti che giocoforza diventa obbligo, mera sopravvivenza, trovare delle alternative. Non entro nel merito, mi chiedo unicamente perché questo moto di salvezza non sia stato innescato prima, anni, decenni fa…

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In qualche modo collegato alla considerazione sopra riportata mi è stato suggerito un «Sushi is the new pizza» che, quantomeno, mi suona non così drammatico. Dovrei avere a disposizione dati che non ho, per poter dire se all’avanzare della gialla marea corrisponda, in una certa proporzione, un calo, una disfatta delle pizzerie presenti. Ribadisco in ogni caso che quest’ipotesi mi pare avere basi più concrete, specie per i giovani, rispetto alla precedente. Indubbio, ma può essere corollario di qualsivoglia commento, che i costi citati siano uno dei grandi motivi di attrazione degli AYCE. Anche se non gli unici, ed è questo punto che vorrei chiarire.

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Mettiamoci anche la globalizzazione, il desiderio di esotismo, di conoscere culture «altre»? Mettiamo il tutto, credo che a molti di noi sia capitato al ritorno da un viaggio di provare il desiderio, più o meno espresso, di riprovare sensazioni e sapori incontrati, sia pure in versione addomesticata. Anche se rispetto ad altri paesi, ancora una volta non so e mi chiedo quanti abbiano avuto il piacere e la possibilità di conoscere il Giappone. Vero è che in alcune metropoli europee, la prima che mi viene in mente è Londra, è potenzialmente possibile concedersi il lusso di assaggiare del «World Food» serio, compreso quello giapponese. Vero che oggi la Rete, i media, portano questi luoghi, questi cibi, sotto forma d’immagine o descrizione, dentro ad ogni casa.

Ho così provato a parlarne con mia figlia maggiore – sporadica frequentatrice, come la «piccola» che è termine assolutamente affettuoso, di alcuni AYCE – avendone  la possibilità durante un breve viaggio in macchina, traendone, ancor meglio chiarendo e precisando alcune intuizioni che erano passate via prima di poterle mettere a fuoco. L’ ordine di esposizione è del tutto casuale.

  • La sensazione di lusso o pseudo-lusso che sia, appannaggio di alcuni di questi locali, che si presentano curati, specie se di recente apertura, con soluzioni d’arredamento magari a ridosso del kitsch ma d’effetto, un’illuminazione in linea che, specie di sera ne aumenta fascino e attrattività.
  • Quanto la prima sensazione contribuisca a dare la percezione di trovarsi in un ristorante vero e proprio, non bar, non trattoria, non pizzeria… Luogo trendy insomma in cui ritrovarsi con gli amici e da poter raccontare senza imbarazzo alcuno.
  • Luogo frequentabile grazie ai costi contenuti ma, visto sotto la lente/luce dei primi due punti, luogo dove il concetto di lusso accessibile viene portato ai suoi estremi, naturalmente deformandolo…
  • Sino qui, non è un caso, il cibo non ha ancora fatto la sua comparsa, come se fosse paradossalmente accessorio. Ma non è solo questo il punto: «Rispetto a molto miei coetanei, amici o conoscenti, io penso di avere avuto la possibilità di provare con te cosa sia un riso rispetto a un altro, del pesce pescato di dimensioni considerevoli rispetto a quello allevato, l’importanza delle consistenze, delle sensazioni olfattive, delle temperature di servizio che possono mitigare o enfatizzare alcune caratteristiche… Ma quando accenno alla cosa mi rendo conto di come il tutto sia poco sentito, poco considerato… In alcuni posti il risultato è comunque per me accettabile, sufficiente, ma nulla di più… E sono conscia di star pagando per ciò che effettivamente mi si sta offrendo, talvolta anche meno»
  • Il senso di potersi  «abbuffare», volendolo naturalmente, svincolati per una volta dall’attenzione per quanto si sta spendendo.

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Ne sono uscito con una diversa consapevolezza e pur restando fermo sulle mie idee – gli AYCE non mi avranno, ne sono certo – ho provato a mettermi nei panni di tanti giovani che li frequentano, passando del tempo in compagnia, considerando il cibo se non proprio come fattore accessorio,  magari come non fondamentale… Qualcosa comunque da condividere, da fotografare… (Vuoi mettere con la fotografia di un bollito, magari una lingua, o di un piatto di trippa, di un minestrone…). Qualcosa che fa sentire un poco grandi, un poco arrivati.

Sta a noi, ne sono più che mai certo, offrire delle alternative, comunicarle, spiegarle.  Non è facile, non a tutti interesserà, ma è l’unica via per poter essere critici nei confronti di determinate forme di ristorazione, anche in modo diretto, esplicito, «crudo», senza per questo sentirsi inutilmente snob, inutilmente pedanti e didattici, tristemente datati. E se costruiremo solamente sul prezzo la differenza, anche se al di sotto di certe soglie è impossibile scendere pena lo scadimento del tutto, non avremo perso una battaglia ma l’intera guerra e loro, mi riferisco sempre e particolarmente ai giovani, potranno tranquillamente dire «Ma che colpa abbiamo noi».

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