Del mangiare lungo le vie

«Se ricostruiamo la provenienza dei cibi-bandiera, nostri e altrui, scopriamo che la loro è una denominazione di origine incontrollata. La storia dell’alimentazione è frutto di migrazioni. Perfino il piatto più tradizionale e la più locale delle tipicità ha dentro la traccia dell’Altro. Ogni ricetta non è altro che la mescolanza di ingredienti diversi che diventano una sola cosa. Si integrano.»

Marino Niola, antropologo

Quanto meno intrigante collegare la riflessione di Niola – La storia dell’alimentazione è frutto di migrazioni – che contiene un preciso riferimento allo spostarsi da un luogo all’altro, il migrare, al consumo, e alla preparazione, di un cibo per strada. Nella definizione della FAO lo Street food è «ready-to eat foods and beverages prepared and/or sold by vendors and hawkers especially in street and other similar public places», ossia cibi e bevande pronti per il consumo preparati e/o venduti da venditori e ambulanti, soprattutto in strada e in altri luoghi pubblici simili. È presente pressoché ubiquitariaménte nel mondo e non mancano certo esempi in Italia, dal palermitano pani câ meusa al lampredotto fiorentino. Sono passati più di dieci anni da quando su questo blog ho tentato di catalogare lo Street food nella nostra provincia – Esiste un “cibo da strada” bresciano? – e non vorrei certo fare un post fotocopia.

La prima considerazione per non incorrere nel pericolo è chiedersi, quali sono i cibi che effettivamente noi consumiamo per strada, e la risposta è pochi, pochissimi, se escludiamo il momento e la specifica modalità introdotta dai food truck e dalle loro riunioni. Sfuggono a questo limite sicuramente le caldarroste – brostói, brüšàcc, brustulìcc, castègne rustide, móndoi, taiàcc – iconiche nei loro cartocci, ormai scomparse le àole fritte, così come le fette di patuna «sè cüsia la sò bèla patuna / dè daga dè merènda ai gnarilì» (A. Albrici) magari col tòch, ulteriore pezzetto dato a mo’ di giunta dal venditore più scaltro per accattivarsi la clientela, pa e salamina o salsésa ma in Valcamonica diventa strinù (e l’impasto si arricchisce della carne di manzo).

Sarà che al bresciano poco o nulla piace passeggiare, camminare, mangiando: ci si concede la licenza nel corso di una sagra, di un evento particolare, sarà che di venditori ambulanti, vale la nota precedente, non ne esistono praticamente più nel capoluogo e nei tanti paesi del territorio, complice anche una giusta, anche se non sempre chiarissima e carica di buonsenso, regolamentazione. Recentemente un articolo del Gambero Rosso a firma di Michela Becchi Cos’è il bertagnì e dove mangiare il migliore a Brescia ha portato alla ribalta nazionale questa preparazione, ma a mia memoria non ricordo padelle fumanti all’aperto e bresciani con cartocci di baccalà fritto lungo la strada.

Forse la via, è proprio il caso di dirlo, consiste nell’allargare il ventaglio di possibilità, attingendo ad altre ricette della nostra cucina e adattandole a un consumo più agile e informale, non mancano esempi attuali come il PanSpiedo ideato da Pasquale Tavella del Boccone, da poco preparazione a De.Co. per Toscolano Maderno, lo stesso Tavella ha già trovato una variante: il PanCapù, dove il pane viene riempito con un involtino di verza al cui interno troviamo il classico ripieno alla bresciana o empiöm. Ma fucina di idee, di cui, ahimè, ignoro la fine, complice in negativo la trascorsa pandemia, è stata anche una rassegna tenutasi per un paio di anni a Berzo Demo, Antichi sapori e nuove intuizioni, che non solo meriterebbe un proseguo ma rappresenta idealmente una modalità tutta da scoprire e, perché no, seguire.

Un cibo agile, divertente, gustoso e informale, dai costi, per quanto possibile, contenuti, dove fare incontrare, in felice equilibrio, tradizione, inventiva, qualità, utilizzo di prodotti locali… Per poi, volendo, abbinare il tutto a vini e birre altrettanto locali, oppure azzardando accostamenti inediti, perché il cibo, lo abbiamo visto nella citazione iniziale, è luogo ideale di scambio e contaminazione. Il tutto, scuserete il termine utilizzato ma di tanto in tanto mi pare impossibile non ricordare il linguaggio veronelliano, lontano «millanta miglie» da scontate e tristi patatine fritte, da altrettanto malinconici pani con la salamina che scontano il livello della materia prima, così come accade per mosci tranci di pizza, troppo spesso protagonisti di eventi sempre più «profani».

L’immagine delle caldarroste e del cartoccio di cibo provengono da banche dati online, quella del Bertagnì è cortesia del Licinsì di KilometriZero, Brescia, quella del PanSpiedo è cortesia dell’Antica Locanda Camillo Benso Conte di Cavour “Il Boccone”, Toscolano Maderno. A disposizione per qualsivoglia ulteriore dettaglio o precisazione.

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