«… un cibo anche semplice è buono se lo mangi dove la terra l’ha prodotto e il fuoco l’ha cucinato, secondo le immemorabili esperienze dell’uomo che ha coltivato la terra e acceso il fuoco per cucinarlo, con quell’acqua, quella legna, quell’aria, quella fame che sempre lo ha ispirato, ricco o povero diavolo di un uomo.»
Gianni Brera, Luigi Veronelli
LA PACCIADA – MANGIAREBERE IN PIANURA PADANA
No, non è certo l’ennesimo inno a un km 0 ormai mercificato, ridotto a semplice suono: chilometrozero, quanto atto di pura adesione, se non amore, a una dimensione sempre più lontana, inarrivabile, e per questo nuovamente desiderata. Desiderio di una tavola parca e ricca al tempo stesso, espressione del valore delle cose, simbolico e materiale al tempo stesso. Dal tempo di Vigilia a quello del Natale, dall’attesa alla celebrazione, interrompendo per una volta, credenti o agnostici, un continuum fatto di automatici consumi, d’ininterrotta e sempre uguale sazietà.
L’idea è quella di riappropriarsi del significato meno superficiale del cibo, non certo per vagheggiare perdute dimensioni o celebrare secoli segnati da una mensa povera per obbligo e non per scelta, quanto per ricordarci che non tutti i momenti sono uguali e segnarne alcuni, sottraendoci a un generale appiattimento, a un’omologazione tanto oppressiva quanto triste. Così la Vigilia diventa emblema del saper attendere gli eventi, momento in via di estinzione in una società che vuole sempre più il tutto e subito: ordino un oggetto sicuro che entro 24 ore sarà mio, poco importa a che prezzo, non inteso unicamente come mero costo.
Così la Vigilia s’identificherà con l’anguilla marinata, il diabolico serpente da mangiare per esorcizzarne la perversa volontà, il nefasto influsso, dissolvendolo fisicamente senza mascherare un piccolo brivido di piacere. E poi il magro, altra, più blanda, dimensione del digiuno, dove la carne è proibita se non quella di pesce, fredda, quasi esangue, lontana dalla nostra fisicità; pratica non più obbligo dalla firma di Papa Paolo VI della Costituzione Apostolica Paenitemini nel febbraio 1966 e proprio per questo ancor più campo di esercizio del libero arbitrio, del poter scegliere.
Anche i primi saranno segnati da quest’assenza e il ripieno troverà nel caseus – cašonsèi, italianizzati nel per me meno felice casoncelli – nel formaggio del ripieno, anche se qui parliamo di ricotta, il principale sapore nonché una delle probabili origini del nome. Qualche erbetta, magari spontanea, tra quelle a disposizione nel periodo, completeranno eventualmente l’opera, perché, ricordiamocelo bene, i nostri casoncelli pur divenuti pasta del giorno festivo, di un più ricco pranzo, nascono poveri, umili, involucro atto a contenere quel che si trovava in casa, non certo motivo per acquisti di altri, più o meno costosi, ingredienti: «… fino alla fine dell’ultima guerra non erano sicuramente disponibili avanzi di prosciutto crudo, mortadella, carne o salsiccia, tutte queste buone cose saranno disponibili solo con il “boom economico” degli anni Sessanta del secolo scorso.» come scrive Marino Marini nel capitolo Casoncelli, la pasta ripiena dei bresciani, contenuto nel suo La Cucina Bresciana – Storie e ricette.
Naturalmente a base ittica anche gli eventuali secondi piatti: la Tinca di Clusane al forno, ricetta divenuta a De.Co. in quel di Clusane proprio in questi giorni (anche se poche, pochissime sono le tinche sebine), aggiungerei un Luccio alla gardesana o alla pescatore, servito con una calda polentina, vi prego non a base di farina di Storo giacché, nulla contro la località trentina, abbiamo ottime e varie farine in provincia, riscopriamole almeno in queste occasioni… Visto che di pesce si tratta perché non una farina a base di mais Biancoperla, di origine veneta sì, ma da tempo coltivato anche nella nostra bassa.
Niente dolce afferma ancora Marino Marini «sarebbe troppo e trasformerebbe l’attesa in un giorno di festa troppo grande», saggezza, essenzialità, d’altri tempi. Ci puliremo allora la bocca con un’arancia, anzi con un portogàl:
Perché so mìa dé chi che èl Portogal i la ströpia èn «arancio»
(Leonardo Urbinati)
e, magari, con un profumatissimo mandarino che ha il solo torto, per noi moderni, di volersi ancora riprodurre coi suoi semi. Dopo la Messa di mezzanotte giusto un poco di frutta secca, seduti tutti insieme attorno al tavolo.
Si cambia del tutto registro il giorno dopo: l’attesa è finita, si può festeggiare, una nascita per chi crede, un giorno di festa da condividere per altri, con l’eguale desiderio di manifestarlo a tavola, ora sì lecitamente «ricca» ma senza il ricorso a ciò che sempre il nostro scrittore, bibliotecario, storico così bolla: «Assurda la presenza nelle nostre feste di prodotti sfiziosi e stranieri come il salmone, il caviale, le ostriche, l’aragosta, l’astice…» da riservarsi, non li condanna certo, a «pranzi esclusivamente organizzati per la degustazione di questi prodotti straordinari… (se di ottima qualità e di alto costo)…» convenendo così con un mio, da sempre, pensiero che definisco l’inganno della «falsa democratizzazione». Alcuni prodotti hanno senso se portati all’estremo, selezionati con certosina pazienza e inflessibile severità, perché incaponirsi in fette arancioni fosforescenti di salato e affumicassimo salmone d’allevamento intensivo dopo aver conosciuto ill Salmone rosso selvaggio Sockeye o, ne pescano ancora? Quello Bianco selvaggio del Baltico? Dove il colore delle carni è diretta espressione di una libera e particolare dieta, non certo di artifizi d’itticoltura. I succedanei lasciamoli ad uomini e donne privi di fantasia (e ahimè di generosi borsellini).
Rifugiamoci allora nel regno del maiale, che vanta sia comprovata tradizione nella nostra provincia, si parla addirittura di una razza Bresciano-Bergamasca con esemplari «Più rustici e sottili di corpo rispetto ai Milanesi. Muso più aguzzo, dorso più convesso setole più lunghe (Mascheroni 1927)», che la maggiore produzione -1.383.936 capi per il nostro territorio – primo tra quelli lombardi, a loro volta primi come intera regione nel panorama produttivo italiano, costituendone pressoché il 50%. Dedichiamo un poco di tempo e attenzione per procacciarci salami, òs del stomèch, ret franciacortine, salami col filetto, salami di Montisola, salami Morenici di Pozzolengo, salami nel’öla della Bassa… Coppe, pancette, sopresse, con la lecita contaminazione di carne salata, slinzeghe, berne e violini camuni. Qualche verdura a bilanciare l’introito proteico-lipidico, sia una giardiniera di ottima qualità, che dei sottoli altrettanto validi o perché no, dei Peperoni lombardi con il formaggio.
Poi via di primi: naturalmente ancora casoncelli, ‘Na süpera dè càdonsei sino a fa tremà la culem del tèt, ma bando al magro e ingresso delle carni, dei sughi (una volta il condimento era gras pistà), oppure Bigoli al sugo d’anatra, e come secondi la gallina o il cappone con l’empiöm, l’anatra alle olive (sui laghi) o ripiena con castagne e prugne o ancora con le verze (croccanti e tenere al tempo stesso per aver preso, si spera, i primi geli) oppure il coniglio: el Conecc aròst o in Fricassea, magari utilizzando le ricette proposte da Camillo Pellizzari nel suo La Cucina Bresciana.
Chi non ama le carni può sempre rifarsi con dei formaggi, non ha che l’imbarazzo della scelta: Nostrano Valtrompia, Silter, Casatta di Corteno Golgi, Casolet, Stàel, Tombea, Bagòss, Garda Tremosine, Grana Padano, Formaggelle, Fatulì, Robiole a latte crudo, Caprini freschi e stagionati, Ricotte (sì lo so che non un formaggio…). Niente marmellate, magari del raro Miele di Rodondendro, del Castagno sempre sotto il vessillo del «meglio», della Melata…
Bossolà, che è il vero dolce natalizio dei bresciani, servito con l’arcano Brodo di giuggiole o con, ci sta, credetemi, un casalingo zabaione freddo o della Mosa (Crema profumata al limone della nostra tradizione, a finire il tutto. E se celebrassimo il ritorno del Panspeziato? Proprio in questi giorni ne ho provato una fettina in abbinamento al del fiordilatte di capra…
Non lesinate sul livello del pane, ce ne sono, se ne trova di ottimo, e per i vini rivolgetevi al territorio: ve ne sono per tutti i gusti, dal Chiaretto Valtènesi DOC al Franciacorta DOCG, dai vini camuni a quelli di Capriano a DOC, dai grandi, sì avete letto bene, Botticino a qualche Cellatica, dal Groppello al Marzemino senza dimenticare la Turbiana del Lugana DOC e il Tuchì della DOC San Martino della Battaglia. E imparate, impariamo ad avere amore, conoscenza e rispetto per i luoghi che ci ospitano: siamo sempre di passaggio, anche a Natale.
Sereno Natale da parte di MadeinBrescia