Chissà se Carlo Petrini si ricorda ancora del sottoscritto, avendolo conosciuto e parlato con lui in un paio di occasioni, non lontanissima la seconda, tenderei a rispondere di sì. La prima, tanti anni fa, ci stupì, ero con mia moglie Elisabetta, ricordandosi di noi e chiamandoci per nome alla fine di un affollatissimo evento nella nostra città. Di lui ho letto nel corso di questi mesi due interventi aventi come soggetto le botteghe, il primo «Se l’Italia perde le botteghe, noi perdiamo l’Italia per come la conosciamo» apparso sul sito di Slow Food lo scorso gennaio, il secondo ripreso sempre sullo stesso sito da un articolo pubblicato dal quotidiano La Stampa del 15 marzo 2020: «Oggi più che mai le botteghe alimentari fanno la differenza». Quest’ultimo, chiara la data, nel pieno di questo davvero drammatico momento.
Non voglio certo fare alcun tipo di paragone, vero è che su queste pagine sono apparsi più post dedicati, appunto, a questa, ormai apparentemente desueta, tipologia di esercizio commerciale, un paio aventi come oggetto uno storica bottega di via San Faustino, da me utilizzata come sorta di simbolo di questi negozi, la Salumeria Castiglioni, che ha chiuso i battenti a giugno dello scorso anno – «Due cose, due parole, un filo (due) di malinconia» e «Castiglioni ha chiuso, viva Castiglioni» – un terzo, di carattere più generale, quasi agl’inizi di questo blog: «Le botteghe color cannella». Senza dubbio le parole di Petrini mi hanno riportato a questi scritti, in alcune parti giocoforza datati, in particolare, alla luce di quanto sta avvenendo e alle mutate caratteristiche dell’attuale distribuzione sono stato colpito da alcune sue riflessioni che cito di seguito
Ciò che sta cambiando è l’aspetto stesso delle nostre città e della nostra socialità. Se con l’epopea dei supermercati e degli ipermercati abbiamo svuotato i nostri centri storici … , oggi, trent’anni dopo, assistiamo a una nuova trasformazione epocale. Il consumo abbandona la dimensione della relazione diretta tra chi compra e chi vende per diventare una pratica eterea, che annulla la distanza tra un clic sulla tastiera di un pc o di uno smartphone e la materializzazione dell’oggetto fisico.
E ancora
Se l’Italia perde le botteghe, noi perdiamo l’Italia per come la conosciamo. Se le nostre città perdono i centri storici, non restano che enormi sobborghi residenziali. Se noi perdiamo le nostre relazioni di vicinato, non restiamo che individui consumatori. Per fortuna un ruolo da giocare ci resta, e può essere quello di protagonisti. Non per arrestare un processo che è storico e probabilmente ineluttabile, ma per dirigerlo e ripensarlo affinché sia positivo e promettente per tutti.
Concludendo
Dobbiamo pensare e realizzare una nuova economia, fondata sui beni comuni e relazionali. In questo le botteghe di prossimità sono un baluardo che non dobbiamo e non possiamo perdere. Non solo nei centri urbani, ma anche e soprattutto nelle aree marginali che insieme ai negozietti vedono sparire un pezzo di quella civiltà artigiana che è l’identità del nostro paese. … Una mobilitazione che guardi al futuro e non al passato, che veda la bottega come paradigma di una multifunzionalità che solo gli strumenti propri della contemporaneità possono offrire e di cui i giovani sono interpreti principali e privilegiati. La modernità risiede nella capacità di usare la tecnologia per vivere meglio, non per abdicare al nostro essere cittadini e ridurci a consumatori senza volto né voce.
Relazione, comunicazione… Non certo vuoto, e anche un poco stucchevole, rimpianto per un utopico passato, ma riconsiderazione di schemi, di situazioni date ormai per scontate e ineluttabili: stiamo assistendo, purtroppo con modalità come prima dicevo, drammatiche, al fatto che la figura umana è ancora, dico per fortuna, fondamentale nella nostra società, e se ciò appare immediato per il nostro sistema sanitario, lo è altrettanto nella produzione, nella logistica, nella distribuzione, nella salvaguardia del nostro ambiente. Appare evidente, non sono certo io ad affermarlo ma voci come quella di Ilaria Capua, che stiamo in parte pagando il «grande disequilibrio creato dall’uomo»: «Covid 19 è figlio del traffico aereo ma non solo: le megalopoli che invadono territori e devastano ecosistemi creando situazioni di grande disequilibrio nel rapporto uomo-animale» suo commento per il Corriere della Sera del 07 marzo 2020. Il tutto traducibile, lo commentavo su un social media, anche in termini come allevamenti intensivi, colture intensive, sprechi alimentari, sistemi distributivi che penalizzano la fonte, l’origine del prodotto e chi ne è in prima battuta l’artefice…
Nel suo secondo scritto, quello recentissimo del 15 marzo scorso, Petrini affronta un altro aspetto emerso con nuova energia in questo momento di emergenza: l’importanza della bottega tradizionale come servizio per i piccoli centri, per le persone di una certa età, per l’equilibrio dei quartieri, quanto sia fondamentale la cosa l’ho apertamente affermato nel mio articolo «Cerveno Un’osteria per incontrarsi» presente nell’ultimo numero, il 141, di AB Atlante Bresciano dell’editrice Grafo in distribuzione da circa tre settimane
Siamo a Cerveno dove il 31 dicembre ha segnato un ulteriore tappa nell’abbandono di queste comunità con la chiusura dopo vent’anni dello storico negozio di alimentari della famiglia Pedretti con affaccio su piazza Prudenzini, senza lasciare al momento alternative, una chiusura che potrebbe avere conseguenze negative sul confinante bar.
Nuovamente Petrini il 15 marzo
Le botteghe, difatti, hanno un elemento distintivo che in situazioni come quella odierna (e non solo) potrebbero davvero fare la differenza: la loro funzione non è solo di mero servizio distributivo, bensì di relazione; veri e propri presìdi di fiducia del territorio e del tessuto sociale, rappresentano un’ancora di salvezza per molti paesi che così si sentono meno isolati.
Concludendo
Approfittiamo di questi giorni per immaginare un dopo dove, una volta capito cos’è davvero necessario, possano convivere varie realtà, dalle botteghe ai supermercati, diversificate e su misura in base alle necessità di ogni luogo.
E allora, quando usciremo da questo tunnel – perché ne usciremo – per far si che vada davvero tutto bene, facciamo tesoro di ciò che abbiamo sofferto per ripensare a un modello alimentare diverso.
Ripeto, ribadisco, con il conforto della parole appena citate del fondatore di Slow Food: non si parla di vane nostalgie, di malinconie più o meno velate dalla mancanza di consapevolezza, quanto di un modello che contempli la sostenibilità di tutte le sue fasi, dell’inclusione attiva di tutti i suoi attori, partendo dai produttori sino ad arrivare al cliente finale. Nessuno pensa di eliminare la Grande Distribuzione Organizzata, magari premiando quella più attenta alle realtà nazionali e locali, senza per questo lasciarsi in alcun modo oscurare dall’ombra del protezionismo, tanto meno da quella dell’autarchia, ma è fondamentale possa convivere con botteghe alimentari in grado sia di servire piccoli centri, piccole aggregazioni, diverse categorie, sia di sostenere le produzioni più particolari, quelle soggette a limiti quantitativi e stagionali di produzione, nonché di tenere in vita un intreccio di umane relazioni ancora importantissimo per la nostra società. Quanto all’online dovrebbe specializzarsi, come del resto è nato…, abbandonando quel voler essere onnipresente, padrone assoluto, al di sopra di regole e nazioni, con imposte risibili rispetto alle realtà fisiche. Ma queste scelte spettano in larga misura direttamente a noi.
Le immagini che qui appaiono sono state da me scattate all’interno della bottega Spaccio Giardino di Bovezzo (BS) e la prima, realizzata per il dorso locale del Corriere della Sera, è apparsa a corredo del pezzo Qualità al top allo Spaccio Giardino Super formaggi e Bresaola di tonno ed è poi stata utilizzata dall’edizione nazionale per un articolo dedicato, appunto, ai piccoli negozi di vicinato.